Cosa impari quando insegni

Sono tre anni che insegno in università: non con una docenza fissa ma con seminari ad hoc che ho tenuto a Gorizia – al corso di Relazioni Pubbliche dell’Università di Udine – e allo IULM – al Master in Food & Wine Communication.

Ci sono arrivata grazie alle buone parole di Mafe e Miriam, e poi ho proseguito al Master dello IULM con seminari sul web marketing; ho anche fatto da relatrice a Marlena, che mi avrà odiato moltissimo per tutte le volte che le ho fatto riscrivere e formattare i capitoli della sua tesi, ma che tra cinque anni mi ringrazierà.

Insegno quello che so fare? No, non solo

Sia i seminari che le docenze non sono inserite in percorsi universitari classici ma in percorsi di specializzazione post laurea, dove quindi gli studenti hanno voglia di sapere come funziona un lavoro dal vero. Ma: hanno bisogno di metodo, e di agganciare quella pratica a dei concetti che possono o ritrovare o approfondire. La pratica arriverà, ora hanno ancora bisogno di sistemare e di essere instradati. Quindi: occorre inserire i casi di studio e le buone pratiche della professione in una griglia di contenuti fruibili anche solo a livello teorico, perché è il livello a loro più comprensibile. Dare la spinta e l’avvio per l’azione pratica, ma tornare poi al concetto.

Anche per questo preparare una lezione vuol dire studiare molto

Incastri gli argomenti in ambiti teorici più ampi, spieghi le cose che sai rifacendoti a un filo conduttore che colloca le digital pr, i contenuti, il ruolo dei critici all’interno del marketing digitale attuale. Gli studenti poi sono affascinati da quello che non hanno ancora visto ma che sono già in grado di fare con il cervello che hanno: per questo portare casi di studio nuovi è utile, e allora passi le ore a cercare esempi freschi come mele.

Gli studenti hanno bisogno di acquisire confidenza

Alla prima lezione sembrano totalizzati dall’indifferenza. Parlano poco, si affidano meno. Che sforzo conquistarli. Se hai fortuna, se sai come prenderli succede che qualcosa di quello che dici risuona nella loro testa: può essere un capitolo che avevano già letto, una pubblicità che li ha colpiti, un meccanismo che non riuscivano a decifrare. Quello che insegni li sblocca, e ti ritrovi, alla seconda lezione, persone che hanno perso la timidezza e non chiedono altro che risposte. Vengono meno gli atteggiamenti border line, la pausa viene rispettata, si autodisciplinano e mettono a tacere il compagno che parla troppo.

Ti chiedono: tornerai? E tu ti chiedi: dove sarai tu tra cinque anni? Quello che trasmetti oggi attecchisce un po’ alla volta, ed è un rilascio a lungo termine. Miglioreranno con la pratica, cresceranno con un buon capo, si confronteranno con altri adulti.

L’insegnamento significa farsi un mazzo silenzioso, trasmettere un metodo e una visione a testa bassa. Una buona didattica è anche una questione di responsabilità: come ti comporti, le parole che scegli, fanno di te un docente serio, oppure no. Non mi vesto più elegante per andare in aula, ma sto attenta alla postura, ai vocaboli. Insegnare è un po’ il contrario di chi squittisce per avere cinque minuti di gloria su Facebook con l’obiettivo di ricevere gli applausi di un pubblico che misura il valore di un’istantanea, e nient’altro.

Mi capita di ripensare spesso alle lezioni di Linguistica, agli esami di Economia Politica, ai libri di Storia del Cinema: sono passati anni, sono insegnamenti che hanno lasciato un segno.

Mia madre ha insegnato per 30 anni, e oggi capisco un po’ di più tutti gli studenti che per strada, anni dopo essere usciti dalla scuola media, la abbracciavano. Che mazzo che ti sei fatta, mamma, quanto hai attecchito, quanto sei durata nelle loro vite.

Date concetti che durino, trasmettete un metodo che non si esaurisce quando la materia si evolve: siate rispettosi dei vostri studenti, hanno tanto da insegnarvi.

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