Le case vive

È un post con tante premesse. Chi sono io in certi momenti, cosa succede tra le aspettative e la realtà, e altri semi di contenuti che un po’ germogliano un po’ hanno già dei bulbi. Si parla di casa, di amici, di cosa è una casa quando ti ami tanto e quando lo fai un po’ meno.

Mi sono trasferita in questa casa a luglio, e ora che è metà ottobre è quasi finita: il tavolo della cucina dovrebbe arrivare la prossima settimana, ho poche pentole, ho smarrito le lenzuola, servo il caffè nei portauova perché non ho tazzine, devo trovare una sedia per la scrivania, appendere i quadri. Sono cose minuscole in confronto a tutto quello che c’è e che rende questa una casa abitabile. In questi mesi ho capito la differenza tra abitare una casa e farla vivere, e qui si inserisce la prima premessa.

Tornare a casa non è sempre piacevole

Capita di stare via dei giorni per lavoro: succede che delle volte non vedo l’ora di tornare a casa, godermela, immergermi nella vasca da bagno, coccolare i gatti. Altri giorni, l’impatto con la stazione di Torino e il pensiero di tornare qui mi caricano di tristezza: succede quando non mi basto, e realizzo che vivo in una città con dei legami giovani, ancora non del tutto familiari. In questi casi tergiverso un po’, faccio una passeggiata, girovago. Capisco che questa casa è esattamente il riflesso di me: starci, rimandare la permanenza, pulirla, decorarla, renderla funzionale.

Il modo in cui immagini e abiti una casa risponde a una sola domanda: ti prendi cura di te?

Ecco quindi la seconda premessa: quando ho arredato casa ho scelto con cura ogni pezzo. La mia cucina celeste Steel, il tavolino con le ruote del salotto, la mensola gialla, le tende grigie della camera, i quadri con le stampe di Ak-lh, la scrivania dell’Ikea, tutti gli elettrodomestici. Ho raccontato tutto questo online, pezzo dopo pezzo un po’ perché questa casa aveva un valore di rinascita (e la felicità a me piace condividerla), un po’ perché questo trasloco ha significato così tanto dal punto di vista emotivo che è diventato anche un’ossessione da sfogare. (Poi c’è chi mi ha chiesto se avessi fatto tutto questo perché volevo lavorare nell’arredamento, un po’ le stesse persone che mi hanno chiesto quale fosse il mio obiettivo di business dietro i video in cui mangio la trippa. Ragà, nessuno).

Tutti questi pezzi, questi oggetti selezionati e non accumulati hanno creato uno spazio a cui, come in ogni casa, tocca alle persone dare vita. Non pensavo che una casa potesse essere così umana, rispondere così tanto alla vitalità, o meno, che ciascuno di noi emette. Eppure esiste una differenza abissale tra quando sono qui, mi ci siedo, sistemo gli asciugamani, abbasso le serrande e quando la incasino, ci ballo, la impasto con l’umore delle mie giornate. La casa è una materia morbida, che per essere abitata deve assorbire la vita di chi la abita.

La settimana scorsa è arrivata la mia cucina Steel, le ho dato un nome, mi sono realmente commossa quando è entrata in questa casa: ho fremuto finché non fosse montata, ho acceso le luci della cappa, azionato il forno, acceso il gas. Due giorni dopo che Olivia – questo è il nome che ho dato alla cucina – era qui, la guardavo inerte, sentendomi pure un po’ una ragazza viziata che si annoia una volta che ha ottenuto quel che vuole. Non erano giorni facili, ho cucinato cose semplici, sono stata spesso via.

Questa domenica ho preparato il mio primo pranzo a casa: ho invitato dei cari amici, e ho cucinato per due giorni. Ho testato la cappa friggendo 100 polpette, il forno cucinando brownies, torte rustiche, uova e bacon. Ho preso ispirazione da Laurel Evans. Gli amici hanno portato 5 sedie, e tutto il loro buonumore domenicale. Eravamo in 11, con tanto di tavolino per i bambini. Il cibo era tanto, non ci stava sul tavolo, così l’ho tenuto appoggiato su uno dei ripiani, lo prendevo, facevamo il giro delle portate e lo rimettevo a posto. I bambini si servivano da soli, hanno pure mangiato le verdure (io gli avevo preparato un sugo d’emergenza). Siamo rimasti a tavola per 4 ore, senza smettere di ridere.

A un certo punto sono andata fuori al balcone a fumarmi una sigaretta: ero lì, al sole, e sentivo le risate dall’interno della cucina. Ora questa casa vive, ho pensato. Sta assorbendo le corse dei bimbi, le belle notizie, l’odore del cibo per gli amici. Sta accumulando peso, ricordi, si sta bagnando di fiori, sta digerendo. Ho percepito una nuova energia, quella di un battesimo da adulta, e mi è sembrato di vedere le pareti sorridere. Le cose belle di cui mi sono circondata hanno un valore diverso, ora che sono state usate per l’amore. Che ha queste facce qui.

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Ci sono 2 commenti

  1. La casa è una materia morbida, si, io ci credo. Come una spugna che assrbe le emozioni. O forse la vera casa ce l’abbiamo dentro e quello che abbiamo intorno è il suo riflesso, che poi forse è la stessa cosa.
    Mi piace tanto leggere questo tipo di post :-)

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