Identità Golose 2015: scarti, macellerie, comunicazione

È dal 2009 che ogni anno, a febbraio, vado a seguire il convegno di Identità Golose, congresso Internazionale di chef e di alta cucina, mossa dalla voglia di aprire la mente dal punto di vista gastronomico, grazie alle lezioni degli chef, e dal desiderio di incontrare gli amici del settore.

La formula è rimasta apparentemente la stessa: lezioni frontali nelle aule, e stand degli sponsor ad animare i corridoi, bilanciando professionismo, commerciale, e relazioni umane. Chef stellari, giornalisti, giovani cuochi, pr, foodblogger insieme a prendere appunti e disegnare le nuove mete dell’ispirazione gastronomica.

Se ci sono state edizioni più futili, in preda all’egotismo di alcuni chef e al groupismo di wannaeat, quest’anno l’impressione è stata quella di una grande concretezza, e di una forte propensione a condividere filosofie e piatti ispirati al buon senso (d’altronde il tema di quest’anno era Una sana intelligenza).

Qui vi racconto la mia personale selezione dopo due giorni di convegno, invitandovi a leggere gli articoli dei colleghi per informarvi su altri talk e diversi punti di vista.

Scarti, rifiuti e ceramiche

Gli chef hanno da sempre utilizzato gli scarti in cucina, e molti degli strumenti nati negli ultimi anni (pacojet  e sottovuoto in primis) hanno avuto lo scopo di cucinare e riutilizzare parti meno nobili e ingredienti ostili. Degli ingredienti si usa tutto, lo dicono gli chef di Identità Naturali e quelli dell’Auditorium, con più o meno coerenza e credibilità.

C’è Enrico Crippa (amatissimo), che a causa delle temperature troppo calde di quest’anno ha rischiato di vedersi marcire molte delle verdure del proprio orto: per preservarle, ha scelto di marinarle con della pasta di miso e di metterle sottovuoto per 6 giorni. Il risultato col daikon? L’ortaggio ha perso l’acqua e ha assunto un sapore di bresaola: servito con della rucola, ha ottenuto un piatto vegetariano e riconoscibile.

Gli scarti non sono solo alimentari: sempre Crippa ha collaborato con un’artista per ideare dei piatti con materiali riciclati, e li ha fatti realizzare a una cooperativa di Bologna costituita da persone che “sono viste come il ‘rifiuto’ della società”. (Capite perché lo amo, sì?).

Una coerenza del genere secondo me è mancata nell’intervento di Massimo Bottura, che ha parlato di recupero del pane e del progetto del Refettorio dove «40 tra i migliori chef del mondo (20 italiani, 20 stranieri) ideeranno e prepareranno menu a partire dalle eccedenze alimentari raccolte ogni giorno in Expo nel pieno rispetto delle normative vigenti sulla sicurezza alimentare.  Ciò che sarebbe destinato ad essere gettato via, sarà trasformato in piatti di alta cucina, grazie al talento e alla creatività». Parlare di recupero con un cestino d’oro in cui raccogliere il pane e un tavolo di designer ha compromesso la credibilità del suo discorso, pur con tutta la forza espressiva e il seguito che uno chef come lui possiede.

Giovani, in Italia e all’estero

Era da un po’ che volevo sentire Simone Tondo, chef di origini sarde che lavora in Francia, a Parigi, col suo Roseval, un bistrot sempre pieno amato da pubblico e critica. Simone, tra le altre cose, è bellissimo. Ma parliamo di cucina. Quindi.

Differenze tra l’imprenditore cuoco all’estero e in Italia: a 21 anni Simone ha potuto chiedere un prestito per aprire la sua attività, forte del suo cv, e del valore del progetto. Qui forse avrebbe potuto partecipare a un bando per start-up, dico io. Se visto da qui l’estero sembra spesso portatore di percorsi più facili per i giovani, ora sappiamo come viene vista l’Italia dei ristoranti da Parigi: un luogo difficile e burocraticamente impervio.

E poi: Simone ha cucinato dei piatti senza farli assaggiare, perché non sarebbero stati rappresentativi della sua cucina (lì a Parigi cucina lui, se non c’è lui il locale è chiuso). Mi è piaciuta parecchio questa onestà, che vorrei ritrovare in tutti gli chef nelle seguenti forme: non ho nulla da dire e allora non vengo a parlare, non cucino quello che non mi rappresenta solo per la necessità di sfamare, non ho nulla da aggiungere a quanto detto l’anno scorso e allora ciao. Ogni volta che uno chef italiano che lavora a Parigi parla, io vedo una differenza notevole con la community italiana: lì c’è chi cucina e parla per i clienti, qui chi fa lo stesso per la critica. Genericamente parlando, ovvio.

Commuoversi

Lo chef è anche pizzaiolo, e quest’anno di fronte alle parole di Franco Pepe io ho pianto. Come sempre, lui parla poco: fa parlare i suoi agronomi, e questa volta anche i suoi contadini. Il sistema Pepe è semplice: per le sue pizze utilizza prodotti locali, che contribuisce a coltivare grazie alle competenze di agronomi e al sapere dei contadini. Il valore del territorio viene creato da un prodotto finito come la pizza.

Il contadino (di cui purtroppo mi sfugge il nome) ha parlato di quando ha aperto la dispensa e ha ritrovato dei semi che suo nonno aveva lasciato, catalogati con dei nomi inesistenti: “i fagioli di Zia Teresa”, “il pomodoro rampicante” ecc. Semi che sono stati coltivati, studiati, frutti e verdure recuperati e stabilizzati, a partire dalla fiducia di un pizzaiolo. Se mia nonna fosse viva, vorrei farle conoscere Franco Pepe, so che avrebbero molto da dirsi.

Facile a dirsi, difficile a comunicarsi

Sempre di pizza si parla, ma stavolta di Simone Padoan, che ha voluto parlare di valore: cosa vuol dire proporre pizze con una lavorazione degli ingredienti di un certo tipo (branzino, daikon, barbabietola, gamberi)? Simone ha voluto mostrare il processo di lavorazione che c’è dietro, facendosi aiutare da quattro persone tra cui la sottoscritta (insieme a me: Sandra Salerno, Paola Sucato e Tania Mauri) mostrando tutte le fasi: l’impasto, la sfilettatura, la composizione. Una pizza può costare 30 euro, e questi sono giustificati se la selezione degli ingredienti è maniacale come la sua: non basta comunicarsi con un certo prezzo per essere definiti gourmet, ma ci vuole serietà e trasparenza, e tanto personale.

Il retro della macelleria

Di Antonia Klugmann, cheffa dell’Argine a Vencò, bisognerebbe mostrare un video: se c’è qualcuno capace di fare storytelling del cibo, è lei. C’è il territorio, di cui si sente custode; c’è la responsabilità ambientale, che dovrebbe essere comune a tutti i cuochi; c’è l’integrità, del prodotto. C’è una cuoca che va in una macelleria e sentendo ordinare solo filetti si domanda: ma la produzione di carne basterà a soddisfare questa insensata domanda? E allora lei va nel retro della macelleria, prende le ginocchia di manzo, e ne fa nervetti, brodo, demi-glace. Lei è una vera cuoca del futuro.

Ristoranti che comunicano: where are you?

Daniel Humm e Will Guidara sono rispettivamente chef e maitre dell’Eleven Madison Park di New York, e parlano dell’equilibrio tra cucina e sala. L’assunto è che il loro obiettivo è di “develop community with guests” e che le persone “go to the restaurants to be cared for”. Ogni volta che una persona prenota presso il loro locale, fanno ricerche su chi è, cosa potrebbe piacergli, in modo da personalizzare l’esperienza. In pratica, la quintessenza delle Digital Pr applicate alla ristorazione. Se vedo il modo in cui comunicano i ristoranti in Italia, e come l’ego di molti chef mette a disagio i clienti, ecco, mi viene da dire: tutti a New York?

La mia cronaca finisce qui. Ci vediamo nel 2016!

C'è Un commento

  1. ero anche io ad IG2015 per poi scriverne per un blog con il quale collaboro,mi spiace di non averti incontrata, ma qui posso dire che avrei voluto saperlo scrivere io un articolo così. potrà non sembare un gran complimento, per chè io di mestiere non “faccio” comunicazione, ma quando ciò che leggi, scritto da un altro, ti rappresenta tanto da fartelo sentire “tuo” non si può non applaudire. brava, maricler :-) e grazie.

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