Il Postrivoro: quando il cibo è un viaggio

Sabato è stato il mio primo Postrivoro, e viverlo mi ha dato modo di capire, a fondo, il concetto di irripetibilità: qualcosa che esiste per un certo numero di ore, un evento a cui assistere dalla nascita alla scomparsa, come un cantante che live esegue un pezzo inventato sul posto e che dimenticherà una volta uscito dalla sala.

Il Postrivoro è una cena, che mette insieme chef  “che facciano parte di importanti ristoranti europei o in procinto di aprire il loro proprio ristorante o che lo abbiano appena aperto “ e sommelier, in date e città diverse: poche settimane prima della cena si aprono le prenotazioni, e tocca essere velocissimi perché i posti – che sono sempre una ventina – vanno via rapidamente. Sabato (e domenica) ha cucinato Leonardo Pereira, ex sous chef di Redzepi; ai vini c’era Andrea Fiorini del Magnolia di Cesenatico. L’allestimento lo ha curato Andrea Merendi.

Il Postrivoro è backstage, e imprevisti che vengono risolti alla moda romagnola, è un letto che si materializza a casa di un uomo che si chiama come il suo gatto, è Dispensa che non avevi ancora sfogliato e che puoi portare a casa, è cibo che scivola via da un menu scritto. È orto a pochi metri, è un insieme di persone che arrivano dalla Romagna e dall’Italia intera per dargli vita, ognuno col proprio contributo.

Non vi farò il racconto dei piatti.

Non sarò precisa: per me che amo l’esattezza delle parole, in questo caso preferisco mostrarvi le macchie della tovaglia, il rossetto sul bicchiere, il risveglio del mattino dopo. Quello che accade durante la cena non può essere sillabato: il rischio è perdersi il succo più fresco, il risultato di una spremuta di impegno che deve essere goduto in quel momento.

E allora cosa è il Postrivoro, perché andarci? Qui vi do due motivi, scegliete voi quale.

Il primo è che il Postrivoro è uno dei pochi eventi food che mantiene, eleva, fa frizzare le promesse che mette su carta: finché non partecipi, non riesci a capire se l’unicità annunciata sia effettivamente reale o se sia uno slogan da buon marketing. Mentre sei lì, puoi toccarne la veridicità, e soffiare tu stesso dentro quella bolla umana di cibo e vino: il Postrivoro sei anche tu, a tavola con sconosciuti, mangiando un cibo che domani non ci sarà più, in una dimensione dove i sensi sono sospesi tra la parte più alta del cuore e quella più bassa dello stomaco. Ed è una crasi che rischia di renderti irrepetibilmente felice.

Il secondo motivo, più gastropugnettaro, è che il Postrivoro è una eloquente, godibilissima, efficace forma di ristorazione: non pop-up restaurant, non “evento esclusivo in una cornice esclusiva” , non dei foodies a caso che sono stati folgorati da un petto di quaglia di uno chef conosciuto. Quando all’inizio della cena Enrico Vignoli ha presentato lo chef, lo ha fatto con queste parole: “Il modo in cui cucini è il modo in cui racconti te stesso”. Il Postrivoro riesce non solo a raccontare la cultura dello chef e del sommelier della cena, ma a farla vivere ai partecipanti: lo fa con sensibilità, con leggerezza, con un impegno super professionale.

In fondo, perché vai a mangiare in un ristorante se non per scoprire, allargare, assaggiare una cultura diversa? I piatti non sono mai solo piatti: è un viaggio, guidato dallo chef e intrapreso da te, cullato dal sommelier e sostenuto da un luogo. Qui al Postrivoro quel viaggio è goliardia, è umami, ed è bellissimo.

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